lunedì 13 luglio 2015


Kyōto 
piccolo diario fotografico dei primi giorni in città



Non ho ancora fatto molte foto da che sono qui: la stanchezza del viaggio, il tempo necessario per abituarmi al fuso e la necessità di sbrigare alcune cose pratiche mi hanno un po' distolto, ma visto che sono una fotografa abbastanza scadente non vi siete persi molto! Comunque, nei prossimi giorni cercherò di impegnarmi di più e di pubblicare qualche scatto per condividere con voi un po' di Giappone.

Appena arrivata la prima cosa che ho fatto è stata vagabondare un po' per il quartiere. 
Vi presento la piccola stazione di Shijō Ōmiya 四条大宮駅 a due passi da casa:












Le strade principali sono le classiche stradone grigie delle grandi città giapponesi:






Ma basta avventurarsi nelle piccole traverse per fare incontri inaspettati e molto graditi:
















Nel vicino quartiere di Gion 祇園 fervono i preparativi per il Gion matsuri 祇園祭, un'antica festa popolare che si tiene ancora oggi a metà luglio:







Ed ora la cosa forse più bella. Ho avuto il privilegio di fare la mia prima lezione di Aikidō qui in Giappone nel (kyū)Butokuden 旧武徳殿, un bellissimo dōjō di epoca Meiji). Le foto purtroppo non rendono, ma per me è stata in molti sensi un'esperienza di rinascita:










Il nostro maestro di spalle e, sullo sfondo, la foto di Ueshiba sensei





domenica 12 luglio 2015

Sotto-sopra
in Giappone


Prima che partissi per Kyōto, una mia cara amica mi ha regalato In altre parole di Jhumpa Lahiri. In questo libro la scrittrice americana racconta la sua passione per l'italiano e la storia del processo di apprendimento della lingua, prima in America, poi in Italia; l'istintivo e improvviso bisogno di cominciare a scrivere racconti in italiano (il libro stesso non è una traduzione, ma è nato direttamente in italiano); il rapporto tra l'italiano e le altre lingue della sua vita, l'inglese e il bengalese. 





Le parole di Jhumpa Lahiri e le sue riflessioni sulla lingua mi hanno accompagnato in questa prima settimana in Giappone. Mi hanno fatto ricordare il trasporto istintivo, la decisione di imparare la lingua quando ero ancora in italia, lo studio appassionato, sfrenato, quasi malsano durante l'anno vissuto a Tōkyō, la sensazione di esilio che provai al mio ritorno in Italia. 


In un passo Lahiri dice:

Dopo aver trascorso un anno a Roma torno un mese in America. Lì, subito, sento la mancanza dell'italiano. Non poterlo parlare e ascoltare ogni giorno mi angoscia. Quando vado nei ristoranti, nei negozi, in spiaggia, m'infastidisco: come mai la gente non parla italiano? Non voglio interagire con nessuno. Provo un sentimento di nostalgia struggente.

Il mio rapporto con il giapponese ovviamente è cambiato nel tempo e ancora cambierà, ma quello che mi ha colpito in questi giorni sono stati soprattutto i conflitti, l'alternarsi di sensazioni di vicinanza e lontananza, di amore e rifiuto.


Il più delle volte mi sembra tutto così naturale che nemmeno mi accorgo di leggere e pensare in un'altra lingua. Mi piace fermarmi a sfogliare libri nei caffè con l'aria condizionata a mille e ogni tanto guardare fuori la gente che passa, mi sembra di essere a casa totalmente protetta e totalmente in me. Penso: questa sono io. 






Poi però arriva una frustata improvvisa. 


Mentre guardo un'insegna, quell'ideogramma di cui capisco il significato ma di cui non ricordo minimamente la lettura mi disturba come un'interferenza in una trasmissione radiofonica. Il sentirmi improvvisamente bloccata prima di rivolgere la parola a qualcuno, la paura di sbagliare e la vergogna sono aspetti tipici del mio carattere, ma si fanno più acuti qui. In certi momenti, la sensazione che non sarò mai allo stesso livello di un madrelingua nelle dinamiche della comunicazione e che non avrò mai, in giapponese, le stesse facoltà espressive che ho in italiano m'incupisce e mi fa chiudere in me stessa.


Quello che ho coltivato fino ad ora è un amore folle e impossibile e a volte la frustrazione mi fa desiderare di chiudere questa relazione difficile come si lascia un amante troppo sfuggente:

Una lingua straniera può significare una separazione totale. Può rappresentare, ancora oggi, la ferocia della nostra ignoranza. Per scrivere in una nuova lingua, per penetrarne il cuore, nessuna tecnologia aiuta. Non si può accelerare il processo, non si può abbreviarlo. L'andamento è lento, zoppicante, senza scorciatoie. Più capisco la lingua, più si ingarbuglia. Più mi avvicino, più si allontana. Ancora oggi il distacco tra me e l'italiano rimane insuperabile. Ho impiegato quasi metà della mia vita per fare appena due passi. per arrivare solo qui.

So bene che il non poter mai dire: "ci sono", "sei mia", quel velo sulle parole che ti lascia sempre il dubbio di non afferrare qualcosa, quel sentirsi straniera quando ci si vorrebbe invece mimetizzare alla perfezione sono l'altra faccia della medaglia, sono parte del gioco di seduzione di una lingua straniera, specie di una lingua così distante. 

[...] credo che una consapevolezza dell'impossibilità sia centrale all'impulso creativo. Davanti a tutto ciò che mi sembra irraggiungibile, mi meraviglio. Senza un sentimento di meraviglia verso le cose, senza lo stupore, non si può creare nulla.Se tutto fosse possibile, quale sarebbe il senso, il bello della vita?Se fosse possibile colmare la distanza tra me e l'italiano, smetterei di scrivere in questa lingua.

Ma quando sono al culmine del pessimismo linguistico e la coscienza di questa separazione incolmabile mi affligge, ci sono alcune piccole cose che mi aiutano a risalire.


Jay Rubin in Making sense of Japanese. What the text books don't tell you, a un certo punto scrive:

Undeniably, Japanese is different from English. The language is different, the people are different, the society is different, and all of these are enormously interesting precisely for that reason. The Japanese do so many things "backwards" from our point of view. A Japanese sentence, with its verb coming at the end is not only backwards but upside-down. One of the most satisfying experiences a human being can have is to train his or her mind actually to think in a foreign mode - the more nearly upside-down and backwards the better.

Jhumpa Lahiri comincia il suo libro con una citazione di Tabucchi:
Avevo bisogno di una lingua differente: una lingua che fosse un luogo di affetto e di riflessione. 

Non mi è ancora del tutto chiaro il perché, ma è evidente che anch'io avevo bisogno di una lingua differente, completamente differente, una lingua che mi mettesse a testa in giù. Il mio rapporto con lei dopo tanti anni è giunto a un nodo e i conflitti che sento mi hanno portato a pensare che il salto che voglio fare in questi due mesi qui a 
Kyōto è accettare il fatto che le soddisfazioni e i disagi fanno parte dello stesso pacchetto e che senza la frustrazione e le brutte figure non esisterebbero nemmeno la gioia e la soddisfazione del miglioramento. Infine, al di là di tutti i buoni propositi, ho voluto la bicicletta? E mo' pedalo! :)